Vittorio Storaro – Ospite d’onore

15 maggio 2019

Io nel bene e nel male sono un po’ il sogno – mi sembra realizzato – di mio padre. Lui per tutta la vita ha fatto il proiezionista di una grande casa cinematografica. Avrebbe amato far parte di quelle immagini che proiettava, ma ormai il suo tempo era dedicato alla professione, non c’era la possibilità di tornare indietro. Per cui ha appoggiato la mano sulla mia spalla e ha messo il suo sogno nella mia testa. Ci sono momenti nella nostra vita in cui capiamo che siamo di fronte a qualcosa di importante, che dobbiamo prepararci al meglio perché, se non prendiamo quel treno che passa, rischiamo di rimanere alla stazione. Si tratta di capire il tempo, il proprio tempo. Ci vuole equilibrio, tra la necessità di non aspettare troppo e quella di arrivare alle cose con la giusta maturità. Così è stato per il mio esordio a 28 anni come cinematografo – ossia autore della fotografia cinematografica: non amo la definizione di direttore della fotografia, perché c’è un solo director ed è il regista –; così per il mio incontro subito dopo con Bertolucci e per l’inizio del mio percorso internazionale nel ’79 con Apocalypse Now di Coppola. Ho aspettato le persone giuste e il tempo giusto.

Vittorio StoraroSenza il tempo non ci sarebbe la mia professione, non ci sarebbe il cinema. Sarebbe fotografia, che è un unico scatto, un tempo infinitesimale, un centesimo di secondo. Mentre il cinema ha bisogno di un tempo più ampio, un tempo narrativo e visivo. È come leggere un libro di Cesare Pavese o di William Faulkner. Quando sono andato nella camera ardente al Campidoglio, ho avuto la possibilità di stare ancora mezz’ora da solo con Bernardo Bertolucci. E ho capito che quello che avevamo sperimentato con il Piccolo Buddah lo stiamo sperimentando ora su di noi. La materia non è permanente, ma la nostra creatività ci porta a qualcosa di infinito. Ci sarà un altro tempo per noi…

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